Luoghi della cura e cura dei luoghi. A colloquio con Franco La Cecla

Bernegger, Guenda (2009) Luoghi della cura e cura dei luoghi. A colloquio con Franco La Cecla. Rivista per le Medical Humanities, 12. pp. 53-59. ISSN 9788877136176

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Abstract

L’antropologia, come la intende e pratica Franco La Cecla, è l’antropologia nella sua accezione più ampia: non solo, come la si concepisce abitualmente, quale studio dei modi altri di pensare e praticare il mondo, bensì anche come osservazione attenta e critica della nostra contemporaneità, delle sue istituzioni culturali e sociali, della sua organizzazione spaziale e temporale, delle credenze, delle relazioni e dei comportamenti che vi trovano posto. Non stupirà allora che le pubblicazioni dell’antropologo spazino da uno studio sull’ape – non l’insetto, bensì il veicolo a tre ruote della Piaggio – (La Lapa e l’antropologia del quotidiano, 2005), a un’analisi della gestualità delle più comuni pratiche umane, come il dormire o il sedurre (Saperci fare. Corpi e autenticità, 1999). O che presentino un’osservazione, tra l’ironico e l’impietoso, non senza però spiragli di speranza, della nostra incompetenza nel concludere le relazioni d’amore (Lasciami. Ignoranza dei congedi, 2003), accanto a una riflessione sul fraintendimento ineludibile che caratterizza la nostra relazione con l’altro (Il malinteso. Antropologia dell’incontro, 1997), fraintendimento che si rivela essere tuttavia un fecondo terreno di incontro: forse, il solo possibile. Lo sguardo dell’antropologo dimostra di potersi applicare a ogni fenomeno della nostra società, «per guardarci come se i “primitivi”, il primitivo oggetto dell’antropologia, fossimo noi», per svelarne le abitudini, le ambiguità, le fragilità, ma anche le opportunità. Così, per esempio, in La moda rende felici (per mezz’ora almeno) (2007), che si apre con considerazioni sul design e sul nostro rapporto alla casa, o in Surrogati di presenza. Media e vita quotidiana (2006), una lettura antropologica, in chiave «animistica», del fenomeno della comunicazione e delle nuove tecnologie. In realtà, La Cecla è nato, prima ancora che come antropologo, come architetto. All’incrocio tra queste due prospettive si trovano numerose pubblicazioni dell’autore, dedicate allo spazio, tanto domestico, quanto sociale, ai nostri modi di costruirlo e di abitarlo (si veda la lettura critica dell’architettura contemporanea, Contro l’architettura, 2008), di viverlo, di non ritrovarvicisi (Perdersi. L’uomo senza ambiente, 1988) o di adattarvicisi, grazie a quel dialogo ininterrotto che l’uomo intrattiene con i luoghi (cfr. Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, 1995). Proprio attorno a queste tematiche, abbiamo scelto di sollecitarlo. Gli abbiamo proposto di considerare in particolare quegli ambienti singolari che sono i nostri luoghi della cura: luoghi che sembrano paradossalmente refrattari a un’esperienza di relazione attiva con essi, quella dell’abitare – come l’antropologo la definisce nei termini di un’attività di creazione, di organizzazione di luoghi. Luoghi di passiva fruizione, i luoghi della cura rischiano allora di indurre in chi li frequenta, utente e non abitante, l’esperienza dello spaesamento, dell’essere «fuor-di-luogo».

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