Articolo. Il Cairo brulica

Inserito da iopensa il Ven, 2001-06-01 12:00

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Versione originale di Arte contemporanea/Primavera creativa. Il Cairo brulica. in “Nigrizia”, anno 119, n. 6, giugno 2001, pp. 45-46.

Otto edizioni per la Biennale del Cairo (quest’anno dal 15 marzo al 15 maggio), un gustoso appuntamento per scoprire che l’arte in Egitto è viva e contemporanea, anche fuori dalla Biennale.


Due siti Internet sono nati il 15 marzo. www.cairoartindex.org (testi in inglese e arabo) funziona come una rivista bimensile. Iman Issa e Brian Wood – i curatori del progetto – selezionano giovani artisti e lasciano a loro la parola: il risultato è un sito ricco di interviste, informazioni ed immagini, aperto ad opere virtuali, a curiosità e a programmi di scambio internazionale (tra gli artisti coinvolti Moataz Nasr, Khaled Hafez, Hassan Khan e Samy Elias). www.thetownhousegallery.com (testi in inglese) è il sito dell’omonima galleria d’arte, concentrato per questo primo periodo sul festival annuale Al Nitaq.

Il Festival Al Nitaq

Al Nitaq (il quartiere) mette in mostra artisti, poeti, scrittori e musicisti. Per due settimane (quest’anno dal 15 marzo al 29 marzo) espongono le gallerie, i bar, i negozi, i centri culturali e gli appartamenti intorno alla piazza Talaat Harb. Giunto alla sua seconda edizione, grazie al coordinamento dei suoi curatori (William Wells della Townhouse Gallery, Stefania Angarano della gallerie Mashrabia e Karim Francis dell’omonimo Espace) il festival coinvolgere il mondo creativo della città collocando le opere in spazi spesso stupefacenti. Lara Baladi occupa l’intero piano di un albergo abbandonato nel centro della città, con pochissimi lavori: piccole bambole e alcune immagini composte da fotografie. All’interno di questo grandioso e decadente labirinto, lo sguardo si ferma su una fotografia attaccata alla carta da parati che ritrae una donna agghindata da eroina cyber, ritratta sulla stessa carta da parati. L’immagine più complessa è un collage che accumula personaggi e situazioni da cartone animato, fotografate e unite insieme: lo stile è quello dell’opera della stessa artista prodotta per l’esposizione “Le Désert” alla Fondation Cartier pour l’Art di Parigi.

Moltissime le opere interessanti, tra le quali i lavori di Hassan Khan (con video che ritraggono il Cairo attraverso domande alla gente), Mona Marzouk (partecipante alla Biennale di Avana del 2000, espone immagini e una scultura nelle quali si incastrano elementi architettonici semplificati), Samy Elias (con un ambiente intimo e lirico, creato per stimolare la memoria e la riflessione), Sabah Naim (con piccole fotografie ritoccate e delicati fiori di carta di giornale) e Susan Hefuna (con immagini della città e della campagna appese nella piazza Talaat Harb).

Shady El Noshokaty (Biennale di Venezia del 1999) espone un muro costruito con mattoni di cera, ricoperto da grasso e capelli: sopra questo sono scolpiti dei cactus. “L’albero della vecchia casa di mia nonna” è un’opera che parla della vita che convive con la morte. Il muro è la copia dei muretti costruiti dagli egiziani sopra i cadaveri sepolti (un rito tipico della città di Damietta, alla foce del Nilo, luogo di origine dell’artista): il corpo del defunto viene protetto da una piccola casa di sassi e su questa viene messa della terra perché le piante possano crescere. La cera ha il colore dalla carne, i capelli sono quelli della gente, il grasso fa parte del corpo, i mattoni sono marchiati come quando prodotti dalle industrie, ma su questi c’è scritto Misr, ovvero Egitto. Insieme alla scultura sono esposte le fotografie di una vecchia casa che si prepara per essere smantellata dopo il funerale e un video con le parole dei familiari che parlano con i loro defunti.

Wael Shawky inserisce un video in una stanza ricoperta di cemento. La musica ad alto volume dei Cypress Hill – hip-pop aggressivo e urbano – accompagna il video che riprende un “Mulid”. Il Mulid è una celebrazione religiosa in onore di un santo locale o di un mistico: la gente si ammassa nelle strade, prega, si riunisce, balla al suono dei musicisti. La danza è un elemento spirituale: molti dei partecipanti sono infatti dei Sufi (mistici musulmani tra i quali è celebre la danza dei Dervisci) e l’azione fisica è un elemento importante nell’Islam (il Corano si legge ad alta voce o muovendo le labbra e la preghiera si esegue con il ripetitivo alzarsi ed inginocchiarsi del corpo). La musica dei Cypress Hill è in sintonia con l’ondeggiare dei movimenti, ma totalmente scombussolante. Compare l’immagine di una ballerina del ventre e poi di nuovo torna il Mulid.

Svincolato dalla burocrazia delle mostre istituzionali, ma vincolato alle autorizzazioni governative, il festival è la risposta di chi non sostiene la Biennale.

L’ottava Biennale Internazionale del Cairo

La Biennale del Cairo è un’esposizione di grande respiro, con ospiti provenienti da quattro continenti: forse troppo per una mostra poco e male organizzata. La selezione degli artisti è approssimativa, le opere sono collocate senza attenzione e i lavori non sono controllati e mantenuti in modo appropriato. All’interno di una massa spropositata di artisti di scarso valore che ridimensionano l’interesse dell’evento, emergono comunque delle voci interessanti.


Moataz Nasr, vincitore della Biennale, espone un video e una parete ricoperta da orecchie. Chi se ne frega: lo dice il proverbio egiziano “un orecchio di fango e l’altro di pasta”. Tra le centinaia di orecchie di pasta di pane e di fango, sfilano nel video le gustose espressioni di tanti passanti che alzano le spalle. Tra i volti anche bambini, artisti, artigiani e un ladro, celebre per i furti su commissione.


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Lo spagnolo José Luis Pajares riempie le pareti con delle immagini. Le immagini sono create da otto proiettori direzionati su altrettante bacinelle ricoperte di specchi e riempite d’acqua. L’acqua viene mossa da piccoli getti: quando si muove le immagini alle pareti si confondono, diventando delle sbiadite macchie di colori; quando è calma le immagini sono nitide e compare un volto coperto in parte dalle dita. L’opera “Estanque para reflejarnos con otros” è stata realizzata nel 2000 all’interno di una maestosa chiesa spagnola di Agua, dove le proiezioni raggiungevano i venti metri di diametro: nell’abside, nella cupola e in una cappella laterale. La collocazione all’interno della Biennale ridimensiona la forza espressiva del lavoro, ma continua a sorprendere.

José Luis Pajares, “Estanque para reflejarnos con otros”. Partecipazione spagnola alla Biennale del Cairo 2001. Foto Iolanda Pensa, Il Cairo 2001.


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Christoph Hinterhuber trasforma in realtà un’immagine digitale. Partendo dalla creazione su computer di un ambiente in tre dimensioni completamente virtuale, il giovane artista austriaco traslittera lo spazio artificialmente creato in uno spazio artificioso, ma reale. Le sfere diventano palloni di plastica, il colore diventa luce al neon, le forme “optical” sono realizzate con vernice fluorescente. Il suono composto da Werner Möbius conclude l’opera e lo spettatore si trova ad aggirarsi in un luogo che è vero, ma allo stesso tempo completamente innaturale.

Christoph Hinterhuber. Partecipazione austriaca alla Biennale del Cairo 2001. Foto di Iolanda Pensa, Il Cairo 2001.


L’americana Judith Barry propone il doppio video “VOICE Off” del 1999, in due stanze create appositamente per il suo lavoro. Nella prima stanza un uomo è filmato: lavora al computer, aspetta, mangia, legge il giornale. Si sentono dei rumori provenienti dall’altra stanza, li sente il pubblico e li sente anche l’inquieto uomo del video. Aumenta la curiosità, l’uomo aspetta e il pubblico aspetta con lui. Ogni tanto il protagonista del video apre la porta che sembra condurre verso la stanza dalla quale arrivano i suoni: si vede solo un corridoio, i rumori non arrivano da lì… sono dietro il muro! La curiosità diventa insopportabile, quella reale e quella filmata: forzati dall’attesa si osserva con più attenzione, scoprendo un’apertura nello schermo, una tenda che conduce nella seconda sala. L’uomo del video è inquieto, prende una mazza da golf e comincia a spaccare il muro. Nella seconda stanza lo si vede comparire dal buco che ha aperto. Nella seconda stanza ci sono gli spettatori che non hanno sopportato l’attesa, ci sono quelli che hanno fatto avanti e indietro tra le due stanze e ci sono quelli che hanno seguito l’uomo quando ha spaccato il muro e si è intrufolato dall’altra parte; il video mostra un mondo irreale, un palcoscenico con musica, donne e uomini che parlano, cantano, tante lingue diverse: un mondo di pensieri. Nella prima stanza ci sono ancora degli spettatori: quelli non hanno avuto il coraggio di attraversare la tenda, spaventati forse dall’idea di trovarsi imbarazzati nel magazzino delle scope, quelli che non vedendo tornare molta gente hanno preferito aspettare; e poi ci sono quelli che non volevano perdersi il finale e forse quelli che si sono sempre domandati cosa succede quando il protagonista se ne va.

Tra gli altri artisti alla Biennale anche Medhat Shafik (artista egiziano residente a Milano) e la britannica Tracey Emin (vincitrice del Turner Pize nel 1999), celebre per opere urtanti, legate ai drammi della sua vita.