Testo pubblicato su “Africa e Mediterraneo” all’interno del dossier Le industrie culturali in Africa, n. 1-2/04 (47-47), agosto 2004.
La Biennale di Dakar ha sei edizioni alle spalle, quattordici anni di storia, una nascita ben ancorata al passato culturale senegalese ed un’unica e ossessiva vocazione: promuovere l’arte contemporanea africana.
La nascita della Biennale di Dakar
La Biennale di Dakar fu creata nel 1989 dal presidente Amadou Diouf. Inizialmente nacque come Biennale de Dakar des Arts et des Lettres, con l’obiettivo di alternare edizioni consacrate alla letteratura e edizioni consacrate all’arte. Fu così che nel 1990 ebbe luogo la Biennale des Lettres, mentre nel 1992 fu organizzata la prima biennale d’arte.
La Biennale d’Arte di Dakar del 1992 fu internazionale e aperta a partecipanti provenienti da tutti i continenti. Le ambasciate, i centri culturali e i ministeri ebbero un ruolo centrale nell’organizzazione e i promotori senegalesi mostrarono il desiderio di trarre vantaggio dall’apertura verso i paesi ricchi, disinteressandosi alla creazione di un nuovo settore africano. Per la loro vivacità, gli eventi paralleli furono più apprezzati rispetto alle esposizioni ufficiali, che delusero per la mancanza di direzione artistica e per la scarsa qualità delle opere. La biennale fu comunque sentita come un importante luogo di incontro, scambio e dibattito e come uno spazio potenzialmente prezioso per l’arte dell’Africa. Ma l’edizione del 1992 fu soprattutto un evento realizzato con molte difficoltà tecniche (in particolare diverse opere non arrivarono mai a destinazione e non fu accumulata nessuna documentazione) e con diversi problemi finanziari (delle forniture e dei servizi non furono pagati: i conti furono saldati con il budget della biennale successiva); il progetto iniziale non era coerente e ben strutturato e gli organizzatori non erano esperti del settore.
Nel giugno del 1993, il Ministero della Cultura organizzò una settimana di valutazione, per rispondere alle domande e alle critiche che avevano suscitato le edizioni della biennale del 1990 e del 1992. L’evento fu analizzato dagli organizzatori e dai partner, che pianificarono le nuove linee guida. Nell’ottobre del 1993 il Ministro della Cultura Coura Ba Thiam annunciò le nuove direttive: furono istituiti il Segretariato Generale ed il Comitato Scientifico (per rendere più professionale la realizzazione della biennale) e l’evento fu consacrato alla promozione dell’arte contemporanea africana.
Una biennale esclusivamente africana
I partner della biennale furono dei vivaci promotori della specificità africana di Dak’Art. Molti dei finanziamenti che sostengono ancora oggi l’evento provengono infatti da programmi per lo sviluppo nel sud del mondo: limitare la partecipazione agli artisti africani permise quindi dall’edizione del 1996 di destinare i fondi esclusivamente alla valorizzazione del continente. I partner, insieme al governo senegalese, incoraggiarono un progetto legato all’Africa e al suo sviluppo economico: Dak’Art poteva favorire il rafforzamento di un mercato africano dell’arte, creare opportunità di lavoro per gli artisti e per gli specialisti del settore e aprire le porte dell’Africa verso i circuiti artistici internazionali. Allo stesso tempo l’interesse panafricano della biennale rafforzava i legami con gli altri paesi del continente. Dak’Art divenne in larga misura un progetto di sviluppo e di cooperazione internazionale in cui l’arte e la cultura erano viste come funzionali all’economia e al mercato.
La caratteristica “africana” della Biennale di Dakar aveva le sue fondamenta anche nel passato del Senegal: Léopold Sédar Senghor, primo presidente del paese, aveva infatti già reso famosa Dakar con il Festival Mondial des Art Nègres del 1966, aveva teorizzato e mostrato al mondo la ricchezza e la vivacità culturale africana, aveva promosso gli artisti (in particolare l’Ecole de Dakar), aveva creato istituzioni e aveva già considerato l’arte come strumento per lo sviluppo della nazione e del continente. Le novità rispetto alle politiche culturali di Senghor furono però numerose: l’Africa era cambiata e il dibattito sull’arte africana durava ormai da più di 30 anni.
Dopo il Festival Mondial des Art Nègres del 1966, sul continente erano nate e stavano nascendo nuove manifestazioni, caratterizzate – come il festival – dalla promozione specifica della cultura africana; Dak’Art si inserì quindi in un contesto sperimentato e in crescita. La scelta di focalizzare l’attenzione sulle arti visive fu invece legata alla tradizionale attenzione del Senegal per questo ambito culturale e alla situazione dell’Africa. Ouagadougo aveva già guadagnato la fama di capitale del cinema africano e dell’artigianato: mancavano invece manifestazioni d’arte visiva contemporanea e Dakar ne afferrò lo scettro. In realtà la decisione di diversificare gli eventi sul continente (come nel caso ad esempio dello spettacolo ad Abidjan, della fotografia a Bamako e della coreografia a Luanda e poi ad Antananarivo) è anche legata ad una scelta dei finanziatori. Osservando infatti i maggiori sponsor delle manifestazioni culturali in Africa, si può notare che si ripetono, e lo stesso finanziatore tende a sostenere progetti diversificati, evitando la concorrenza tra eventi simili. Inoltre concentrare in una sola città la vivacità di un settore culturale dell’Africa permette una maggiore visibilità, incoraggiando gli specialisti del a visitare le manifestazioni: moltissimi eventi ed informazioni sono infatti concentrati in un solo luogo e in un solo momento.
Circoscrivere il campo d’azione di Dak’Art alla sola arte contemporanea africana, diede una specificità all’evento, permettendo alla Biennale di Dakar di emergere nonostante i fondi limitati, e di caratterizzarsi e differenziarsi rispetto alle altre manifestazioni già esistenti, e in particolare rispetto alle numerose biennali analoghe. La tendenza generale degli eventi internazionali è infatti quella di offrire un panorama dell’arte contemporanea sempre più omogeneo: gli artisti invitati e le opere presentate tendono spesso a ripetersi in tutte le città del mondo. Per la Biennale di Dakar il rischio principale – accettando artisti internazionali, ma continuando a disporre di un budget limitato – sarebbe stato quello di trasformarsi in una manifestazione simile alle altre, ma di serie “B”; gli artisti internazionali invitati a Dakar sarebbero stati gli stessi delle altre biennali, ma con opere meno significative e senza la possibilità di creare progetti innovativi in sede. Limitare invece la biennale al continente africano permette ancora oggi alle esposizioni di presentare un panorama diverso rispetto agli altri eventi (che sono solitamente internazionali), consente a Dak’Art di essere un’esposizione di serie “A” nel suo settore e suscita quindi maggiore interesse anche a livello internazionale.
La specificità africana della Biennale di Dakar apparve particolarmente felice alla nascita della Biennale di Johannesburg. La Biennale d’arte visiva di Johannesburg fu inaugurata nel 1995, con un budget impressionante rispetto a quello di Dak’Art. Gli organizzatori della Biennale di Dakar percepirono immediatamente il pericolo di essere spodestati dal Sudafrica, decisamente più ricco e con più infrastrutture. Tirarono un sospiro di sollievo per aver specializzato e differenziato Dakar (la Biennale di Johannesburg ebbe infatti una dimensione internazionale) e furono felici di programmare la biennale per il 1996, evitando la concorrenza annuale con l’altro evento africano. Il problema (e lo spauracchio) della Biennale di Johannesburg durò poco: la sua storia finì infatti con la seconda edizione, nel 1997.
La Biennale di Dakar dal 1996
Dak’Art 1996 fu la seconda biennale di arti visive del Senegal, ma da molti fu considerata una nuova prima edizione, per i numerosi cambiamenti che presentò. Furono allestite mostre d’arte, di design e di creatività tessile, d’artigianato, insieme a dibattiti, proiezioni di film, stand di pubblicazioni e laboratori artistici per gli studenti delle scuole senegalesi. Dak’Art cercò di raggiungere un vasto pubblico, strutturando in modo più dettagliato la manifestazione e creando eventi ed attività che fossero in linea con i nuovi obiettivi che si era prefissata: favorire la liberalizzazione del settore dell’arte incoraggiando la cooperazione tra lo Stato e le iniziative private, promuovere la commercializzazione dell’arte contemporanea africana e rafforzare il suo mercato (anche a livello internazionale) e favorire la partecipazione del pubblico attraverso l’informazione e l’educazione artistica.
Nonostante le nuove difficoltà organizzative e i grandi limiti dell’evento, Dak’Art 1996 fu sentita dagli organizzatori e dai partecipanti come l’inizio di un nuovo impegno da sviluppare e migliorare nel tempo. L’esposizione internazionale fu aperta esclusivamente a partecipanti africani, ma vi fu una predominanza di artisti provenienti dell’Africa Occidentale. Tra gli artisti selezionati non vi furono personalità maggiori e le opere presentate furono esclusivamente pittoriche e scultoree. I saloni del design e della creatività tessile, aperti anch’essi esclusivamente a partecipanti africani, furono una novità rispetto alla biennale del 1992 ed ottennero molto successo: il design e la moda furono subito considerati settori interessanti per lo sviluppo del mercato dell’arte africana. Rispetto all’esposizione internazionale, le esposizioni individuali furono maggiormente apprezzate per il miglior allestimento e per la completezza che rendeva più comprensibile la produzione degli artisti invitati. L’esposizione degli artisti senegalesi fu invece molto criticata, perché simile ai saloni organizzati dall’Associazione Nazionale degli Artisti del Senegal e perché i partecipanti si sentirono meno valorizzati degli artisti invitati per l’esposizione internazionale. Gli eventi paralleli presentarono sia esposizioni di artisti senegalesi all’interno di atelier e di spazi pubblici, sia mostre e progetti di più ampio respiro. Tra questi ultimi emerse il laboratorio Atelier Tenq curato da Clémentine Deliss e l’esposizione Les Artistes Africains et le Sida di “Revue Noire”.
Durante la Biennale del 1998 fu introdotta la fotografia, furono presentate delle installazione e parteciparono all’evento anche artisti della diaspora africana (all’intero delle esposizioni individuali). Per la prima volta venne organizzato il MAPA (l’esposizione vendita di arte contemporanea africana che mostrò subito numerose debolezze) e fu utilizzata la sede della Casa della Cultura Douta Seck per alcune mostre e per i dibattiti. Tra gli eventi paralleli più significativi vi furono il Salone della Giovane Creazione Ivoriana curato da Yacouba Konaté e la Settimana della Moda organizzata dalla stilista senegalese Oumou Sy nel suo locale Metissacana.
Nel 2000 ci fu un enorme scombussolamento: fu eletto il nuovo presidente Wade pochi mesi prima della data di apertura della Biennale. Per la prima volta in Senegal un nuovo partito politico saliva al potere dopo quarant’anni di monopolio dell’Unione Progressista. Gli organizzatori di Dak’Art restarono in attesa: nessuno sapeva quali conseguenze avrebbe avuto il cambio di governo; non si sapeva se la manifestazione sarebbe stata possibile, se sarebbe stata rimandata o addirittura cancellata, se sarebbero arrivati i finanziamenti e se si poteva contare sull’appoggio del presidente. La capacità della biennale di sopravvivere al nuovo ordinamento politico dimostrò la forza e l’autonomia del Segretariato Generale ed il grado di consolidamento che la manifestazione aveva raggiunto nel corso degli anni.
Nel 2000 la Biennale di Dakar durò un mese. Dak’Art 2000 si trasformò quindi in un evento destinato non soltanto agli specialisti del mondo dell’arte (che visitano la città per la settimana delle inaugurazioni e dei seminari), ma anche ad un pubblico più ampio. Le esposizioni ufficiali e gli eventi paralleli aumentarono in modo significativo e la biennale ricevette una maggiore copertura da parte dalla stampa internazionale. L’esposizione internazionale mostrò meno opere ed una maggiore attenzione verso la selezione, proiettando video, incoraggiando le installazioni e presentando molta fotografia. D’altra parte però, dopo la prima settimana di inaugurazioni, le fotografie di Essien Mfon (che ritraevano il corpo nudo di una donna con un seno mutilato dal cancro) furono censurate probabilmente dai custodi stessi ed i video funzionarono in modo estremamente saltuario. Gli eventi paralleli proposero molte collettive di artisti senegalesi, qualche lavoro originale di partecipanti alle passate edizioni della Biennale ed alcuni progetti più coraggiosi e interessanti, come la Boutique d’Alimentation (con delle opere site specific collocate all’interno di un negozio d’alimentari nel centro della città), la mostra di opere di bambini di strada Les Enfants de la Nuit (ambientata al buio ed organizzata dall’associazione Man-Keneen-Ki) e il programma di cinema di animazione con il laboratorio dell’artista sudafricano William Kentridge (presso il Centro Culturale Francese).
Rispetto alle precedenti edizioni, Dak’Art 2002 offrì diverse novità, inevitabilmente legate al cambiamento politico del 2000. Alcuni responsabili della biennale furono sostituiti, l’organico del Segretariato Generale fu ampliato e furono create nuove figure professionali; si cercò anche di valorizzare sempre di più le risorse locali, senegalesi ed africane (ad esempio il catalogo fu prodotto per la prima volta a Dakar). L’esposizione internazionale fu allestita con una nuova cura e furono organizzati numerosi dibattiti e gruppi di lavoro. I curatori delle esposizioni individuali ebbero la possibilità di selezionare tre artisti ciascuno e furono meno limitati da confini geografici precisi. Aumentarono anche le esposizioni ufficiali, e gli eventi paralleli (circa 100 a Dakar e in altre città del paese) furono affidati al curatore Mauro Petroni. La copertura della Biennale da parte della stampa internazionale fu migliorata e si diversificarono i finanziamenti.
Oggi
La Biennale di Dakar continua ancora oggi a promuovere l’arte contemporanea africana con sempre più attenzione all’allestimento delle opere e allo sviluppo delle nuove tecnologie, ma con ancora numerosi problemi organizzativi. Mancano tecnici competenti, le opere arrivano in ritardo, l’evento è scarsamente comunicato e promosso, ci sono difficoltà di coordinamento del personale, il catalogo è mediocre, le infrastrutture sono inadeguate, i finanziamenti sono ancora poco diversificati, lo statuto è inadatto e le tasse doganali continuavano a rendere inevitabilmente difficile lo sviluppo di un vero mercato dell’arte africana. Ma non solo, Dak’Art basa la sua selezione su metodo piuttosto strano e ormai biennalmente messo in discussione: il metodo dei dossier di candidatura.
L’organizzazione della Biennale di Dakar
La Biennale di Dakar – a differenza di quelle di Venezia, San Paolo e Il Cairo – non è organizzata in padiglioni nazionali, né ha – a differenza di tutte le biennali – un curatore generale. Per partecipare a Dak’Art è necessario possedere il passaporto di un paese del continente africano e candidarsi seguendo il bando emesso dal segretariato della biennale. In sostanza Dak’Art basa la sua selezione per l’esposizione internazionale e il salone di design sulla libera partecipazione degli artisti che inviano dei dossier di presentazione. Il Comitato Internazionale di Selezione e di Giuria, nominato dal Comitato Scientifico senegalese, non invita dunque gli artisti, ma li sceglie tra quelli che si sono candidati. Unica eccezione: le esposizioni individuali che sono mostre organizzate abbastanza liberamente da curatori internazionali.
Il sistema dei dossier di candidatura – unico nel suo genere e praticamente immutato dal 1996 – ha vantaggi e svantaggi. In sintesi i vantaggi sono che costa poco e che la selezione potrebbe produrre risultati più originali rispetto ad altre biennali. Lo svantaggio principale è che il metodo in realtà ancora non funziona: Dak’Art non è in grado di farsi conoscere in modo sufficientemente efficace; preparare un dossier professionale di presentazione è più facile ed economico in Europa che in Africa ed essenzialmente i partecipanti si candidano alla biennale grazie all’approssimativo passaparola. Questi limiti sono inaccettabili in un evento che rappresenta uno dei trampolini più importanti per gli artisti dell’Africa: partecipare a Dak’Art significa avere la possibilità di conoscere e farsi conoscere da critici d’arte, curatori e giornalisti internazionali, permette di avere accesso a gallerie, workshop e residenze per artisti ed è un’ottima occasione per accedere a contatti preziosi. Il metodo dei dossier di candidatura ha l’ambizione di essere il più aperto ed il più democratico, ma nella realtà è un sistema che è profondamente vincolato ai canali di comunicazione e che dà molto potere a chi detiene le informazioni.
Il futuro di Dakar
L’organizzazione della biennale suscita da diversi anni un acceso dibattito e diversi critici hanno proposto la nomina di un direttore artistico che potrebbe in futuro dare una linea teorica e coordinare in modo efficace l’evento. In realtà la qualità delle esposizioni di Dak’Art non si può però credere determinata soltanto dal metodo dei dossier, dipende – oltre che dalla capacità e incapacità degli organizzatori di allestire gli eventi – dai criteri di giudizio del pubblico che è sempre più vario ed esigente. La biennale non potrà mai soddisfare tutti, ma è ora che decida chi vuole soddisfare. Insomma, a chi è destinata la Biennale di Dakar? Ai senegalesi? Agli artisti africani? Ai governi? Ai critici internazionali? All’Unione Europea che deve promuovere progetti di cooperazione e sviluppo? Forse Dak’Art dovrebbe concentrarsi non tanto sull’arte contemporanea africana, ma semplicemente sull’arte, investendo di più nel migliorare gli allestimenti e dimostrando di essere veramente al servizio degli artisti, quanto meno di quelli con il passaporto di un paese africano.
Dak’Art is an exhibition focused on contemporary African Art. The first 1992 biennial was open to participants coming from all over the world and was quite a disaster. The failure stimulated the restoration and in 1996 the biennial inaugurated big changes. Dak’Art devoted itself to contemporary African art and development. The sponsors had a major role in directing the new trend: they sustained the cultural industry and they made sure their grants were directed specifically to support artists from the South. Today Dak’Art is still focused on contemporary African Art, but the selection procedure needs to be redefined and needs to be planed according to the target.