Articolo. Medhat Shafik. L’arte e il luoghi: Il Volo della Fenice e La Via della Seta

Inserito da iopensa il Ven, 2001-06-01 12:00

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Versione originale di Medhat Shafik: l’arte e i luoghi. Il Volo della Fenice e La Via della Seta in “A Oriente!”, anno II, n. 6, estate 2001 (trimestrale), pp. 24-27. In italiano e arabo (traduzione di Laila Mohamed Said).

Le esposizioni sono il segnalibro in un viaggio: la poetica di un artista si sviluppa attraverso le idee, i ricordi, i dialoghi. Le opere assorbono gli incontri, i luoghi, il passato.
Medhat Shafik è nato quattro anni dopo l’espulsione di Re Farouk e l’indipendenza dell’Egitto (1952), lo stesso anno in cui il Canale di Suez diventava proprietà egiziana (1956). Il Cairo cresceva a dismisura e l’arte si sviluppava sotto il forte influsso del socialismo del Presidente Gamal Abdel Nasser.

Shafik parte per l’Italia (1976) sei anni dopo la morte di Nasser (1970), mentre l’Egitto – spossato dalle guerre contro Israele (1967 e 1973) – comincia ad aprirsi all’Occidente, alla guida del suo secondo presidente Sadat. L’Italia è un esplosione di immagini, di informazioni: l’Arte Povera è la grande novità degli anni Settanta, mentre negli anni Ottanta si affermano l’espressionismo tedesco dei Nuovi Selvaggi e la Transavanguardia.

“La poetica di un artista, la poetica interessa di più, qual è il tuo mondo. E’ ovvio che il mondo di un artista fluisce dal suo passato, l’abbraccia… ma poi l’artista diventa figlio del mondo”

[fotografia dell’esposizione di Cervia]

L’esposizione Il Volo della Fenice incontra il fuoco, ormai spento, di cui resta solo il calore. Dalle fonderie provengono vecchi crogioli, staffe, trucioli di ferro che si mescolano a matasse di zinco, bilancieri di carta, mattoni macinati. All’interno di una vecchia pescheria i grandi tavoli tornano ad esporre prodotti e i canali laterali di marmo accolgono ancora una volta il fluire dell’acqua. Il luogo è un ingrediente, racconta la storia degli uomini che vendevano all’asta il pesce, del loro vociferare, dei loro pensieri e dei loro sogni.
Il fuoco è il tema, per l’artista metafora della guerra. Gli oggetti quasi abbandonati per terra ricordano i resti di un bombardamento, il metallo evoca gli strumenti dei massacri. Le lievi bilance di carta, parlano di armonia, di pace: la fenice moriva per rigenerarsi, per dare vita ad un’altra fenice. Nel racconto mitologico il fuoco segnava la fine e l’inizio. Il bellissimo uccello solitario bruciava se stesso e il suo nido, e da questo spiccava il volo la nuova maestosa creatura. In un’altra tradizione, dalla morte della fenice nasceva la nuova che trasportava in volo il cadavere della sua genitrice in Egitto, dove veniva cremato dai sacerdoti sull’altare del Sole. Il mitico arrivo del grandioso uccello, dai colori splendenti più di quelli di un pavone, segna nella tradizione l’inizio di una nuova era.

“Noi artisti si tende ad essere «gli altri», quelli che guardano fuori dalla finestra le cose e vedono il mondo che scorre. E amano questo scorrere del mondo e vivono nell’utopia di come cambiarlo. Io penso che l’arte debba riconquistare la dimensione profetica, la dimensione «altra», la dimensione emozionale per comunicare qualcosa, per dare qualcosa. L’unica arma di un artista è l’utopia. Non so se combattiamo contro i mulini a vento…”

[fotografia dell’esposizione di Como]

L’esposizione La Via della Seta conduce a Como, tra le navate di una chiesa sconsacrata. Le opere sono collocate lungo un cammino che si snoda dall’ingresso attraverso le navate: dall’Oriente all’Occidente, dal sorgere del sole al suo tramonto. Lungo il percorso sabbia, accampamenti, sacchi di juta, fogli di carta strappata che annunciano con i loro colori l’arrivo della seta.
Como è l’approdo di un viaggio: l’inizio della coltivazione dei bachi segnò un nuovo tempo per l’economia, un processo che rese famosa la città, introducendo un materiale prezioso e nuovi disegni. L’esposizione segna i passi di questo viaggio: scoperta, scorci ed evocazione all’interno di una chiesa, il luogo della più intima ricerca.

“Un luogo sacro, un luogo che dialoga con l’infinito. L’artista entra nei luoghi e già il suo spirito sente i sussurri del tempo, il trascorrere delle ere, degli anni, crea già un linguaggio dentro di sé: devi entrare in dialogo con quel luogo, devi imparare le sue regole, devi rispettarle.”

Medhat Shafik colleziona vocaboli. Un piccolo sasso, della sabbia, il pigmento, la carta, ogni oggetto racconta la storia dei luoghi che ha conosciuto. Shafik li rapisce, trattenendo la traccia di un posto, delle vite che ha incontrato: l’oggetto diventa un vocabolo nelle sue opere.
Il discorso non è mai caotico, aggressivo, sfacciato. Sulla punta dei piedi sembra disporre le parole, mettendole in ordine e bilanciando i toni: silenzi, brusii, spazi vuoti, sussurri, vociferare. Sceglie colori addomesticati, la materia famigliare: acqua, pietra, luce.
L’acqua trasporta il passato, i messaggi, ed è la fonte del futuro. Nelle opere di Shafik non è mai impetuosa, ma uno scorrere gentile, un fluire silenzioso che accompagna la vita. La pietra è il supporto della parola, quella detta, graffiata e tracciata, e quella non detta, racchiusa nel lungo viaggio di un sasso.
La luce inonda la scoperta, è il bagliore dell’arrivo.
Medhat Shafik cerca i luoghi intimi, appartati. Le opere pittoriche sembrano spiare un mondo ideale, dove il brusio delle figure – appena accennate e ridotte a semplici segni – si mescolano alle quiete delle zone di colore, come in Cercare nel giallo i tepori delle passioni (1998) e Fabulazione (2000). Le installazioni sembrano voler creare un mondo ideale, dove il percorso conduce alla scoperta delle proprie emozioni.

“Il mio sogno è di lavorare sempre sull’opera nella sua totalità: la comunicazione calda, della quale si vergognano molti artisti, dai tempi del minimalismo e del concettuale. L’opera è sempre un lavoro concettuale, io rappresento un qualcosa ma per dire qualcos’altro. Facendo un percorso si crea qualcosa di profondo, una sensazione calda tra me e chi guarda. E’ come se il mio inconscio prendesse forma in tre dimensioni.”

Medhat Shafik è nato nel 1956 a El Badari in Egitto. Dal 1976 vive e lavora a Milano.
XLVI Biennale di Venezia, Padiglione Egitto (Leone d’Oro alle Nazioni), 1995.
La Croce e il Vuoto, Palazzo Ducale, Mantova, 1996.
Biennale Internazionale dell’Arte, Cairo, 1998.
Il Volo della Fenice, Ex-Pescherie, Cervia, 1999.
La Via della Seta, Salone di San Francesco, Como, 1999.