Articolo. Intorno alla Biennale del Cairo

Inserito da iopensa il Ven, 2001-06-01 12:00

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Versione originale con aggiunte delle immagini di Biennale del Cairo in “Flash Art”, anno XXXIV, n. 228, giugno-luglio 2001, p. 137.

Marcela Moraga, Playmobil. Partecipazione cilena alla Biennale del Cairo 2001. Courtesy dell’artista, Il Cairo 2001.


L’ottava Biennale del Cairo scuote la città, incoraggiando gli insoddisfatti a mettersi in gioco. Compaiono due siti con i giovani protagonisti egiziani (www.cairoartindex.org e www.thetownhousegallery.com) e il Festival Al Nitaq invade il quartiere centrale della città intorno alla piazza Talaat Harb. Arte, musica, poesia, Internet e Biennale per dimostrare che l’Egitto è vivo e contemporaneo.


Vince il premio della Biennale Moataz Nasr, con un video e una parete ricoperta da orecchie. “Un orecchio di fango e l’altro di pasta”: così dice il proverbio egiziano, per chi non ascolta e se ne frega. Tra le centinaia di orecchie, sfilano nel video le gustose espressioni di tanti passanti che alzano le spalle. Tra i volti anche bambini, artisti, artigiani e un famoso ladro, celebre per i furti su commissione.


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Lo spagnolo José Luis Pajares riempie le pareti con delle immagini. Le immagini sono create da otto proiettori direzionati su altrettante bacinelle ricoperte da specchi e riempite d’acqua. L’acqua viene mossa da piccoli getti: quando si muove le immagini alle pareti si confondono, diventando delle sbiadite macchie di colori; quando è calma le immagini sono nitide e compare un volto coperto in parte dalle dita. L’opera “Estanque para reflejarnos con otros” è stata realizzata nel 2000 all’interno di una maestosa chiesa spagnola di Agua, dove le proiezioni raggiungevano i venti metri di diametro.

José Luis Pajares, “Estanque para reflejarnos con otros”. Partecipazione spagnola alla Biennale del Cairo 2001. Foto Iolanda Pensa, Il Cairo 2001.


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Christoph Hinterhuber trasforma in realtà un’immagine digitale. Partendo dalla creazione su computer di un ambiente in tre dimensioni completamente virtuale, il giovane artista austriaco traslittera lo spazio artificialmente creato in uno spazio artificioso, ma reale. Le sfere diventano palloni di plastica, il colore diventa luce al neon, le forme “optical” sono realizzate con vernice fluorescente. Il suono conclude l’opera e lo spettatore si trova a sguazzare scombussolato in un luogo che è vero, ma allo stesso tempo terribilmente sintetico.

Christoph Hinterhuber. Partecipazione austriaca alla Biennale del Cairo 2001. Foto di Iolanda Pensa, Il Cairo 2001.


L’americana Judith Barry propone il doppio video “VOICE Off” del 1999, in due stanze separate, create appositamente per il suo lavoro. Nella prima stanza un uomo è filmato: annoiato lavora, aspetta e sente provenire dall’altra stanza dei rumori. Nella seconda stanza il video mostra un mondo irreale, un palcoscenico con musica, donne e uomini che parlano e cantano. L’uomo della prima stanza non resiste, per scoprire cosa succede dall’altra parte del muro lo sfonda con una mazza da golf, per poi attraversarlo e sbucare nella seconda stanza.

Tracey Emin rappresenta la Gran Bretagna con un video e dei disegni.

La Biennale fatica ad essere competitiva. Le opere sono collocate senza attenzione; ci sono problemi di spedizione, problemi di montaggio e problemi di manutenzione. Le informazioni sull’evento sono scarse e il catalogo svaluta il lavoro degli artisti. La giuria (nella quale, tra gli altri, Daniel Georges Abadie, Rosa Martinez, Martina Corniati e Gioia Mori) si occupa di distribuire i suoi premi tra gli artisti già selezionati dal Comitato Supremo o proposti dai curatori nazionali, e la qualità della Biennale soffre, incastrata nelle mani degli ormai storici organizzatori, troppo potenti e troppo storici.

Il Festival Al Nitaq

Il festival Al Nitaq sorprende invece per la grande vitalità e l’impegno dei partecipanti, numerosissimi.

Shady El Noshokaty (Biennale di Venezia del 1999) espone un muro costruito con mattoni di cera, ricoperto da grasso e capelli. Sopra il muro sono scolpiti dei cactus. “L’albero della vecchia casa di mia nonna” è un’opera sulla vita che convive con la morte. Il muro di mattoni è la copia dei muretti costruiti dagli egiziani sopra i cadaveri sepolti: il corpo del defunto viene protetto da una piccola casa di sassi e su questi viene messa della terra perché delle piante possano crescere. Insieme alla scultura sono esposte le fotografie di una vecchia casa che si prepara per essere smantellata dopo il funerale e un video con i racconti dei famigliari che parlano di loro defunti.

Wael Shawky inserisce un video in una stanza ricoperta di cemento. La musica ad alto volume dei Cypress Hill, hip-pop aggressivo e urbano, accompagna il video di un “Mulid”. Il Mulid è una celebrazione religiosa in onore di un santo locale o di un mistico: la gente si ammassa nelle strade, prega, si riunisce, balla al suono dei musicisti. La danza è un elemento spirituale, ma la musica dei Cypress Hill – in totale sintonia con i movimenti delle persone – stordisce. Compare l’immagine di una ballerina del ventre e poi di nuovo torna il Mulid.

Lara Baladi occupa l’intero piano di un albergo abbandonato nel centro della città con pochissimi lavori: piccole bambole e alcune immagini composte da fotografie. All’interno di questo grandioso e decadente labirinto, lo sguardo si ferma su una fotografia attaccata alla carta da parati che ritrae una donna agghindata da eroina cyber, ritratta sulla stessa carta da parati. L’immagine più complessa è un collage che accumula personaggi e situazioni da cartone animato, fotografate e unite insieme.
Interessanti anche i lavori di Hassan Khan, Mona Marzouk (Biennale dell’Avana del 2000), Samy Elias e Sabah Naim.


London Nomad

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London Nomad ha portato in città artisti britannici: tra gli altri Marc Quinn (con mani di pane fabbricate sul posto), Sam Taylor-Wood (“Five Revolutionary Seconds XII”), Georgina Starr (con il video Crying), Gary Hume, Adam Lowe e Paul Morrison. Le opere fanno parte di una collezione che viaggia, The nvisible Museum: opere di piccole dimensioni (forse troppo trasportabili) che vengono prestate e mostrate all’estero in edifici storici (al Cairo nel quartiere islamico, all’interno di un palazzo ottomano). I lavori più significativi in questo disegno espositivo sono “Nothing” (nelle foto) e “Pool”, due lavori di Mark Pimlott: un quadrato di acciaio inossidabile e una lastra di vetro verde; giocando sui riflessi, le due opere arricchiscono l’ambiente e vengono arricchite dai dettagli decorativi del palazzo ottomano.

Mark Pimlott, “Nothing”. Foto di Iolanda Pensa, Il Cairo 2001.